L’uomo dell’urlo
1974: l’incontro
A dieci anni hai il mondo in tasca
e nessun pensiero.
…a cosa
servono i palloni
incastrati sotto le marmitte
a ricordare quando fuori
si giocava fra le 127…
(Samuele
Bersani, Che vita)
1.
Il sole, in quel pomeriggio,
stava tramontando sul campetto pieno di polvere e di zolle di terra, affacciato
sui palazzi di nuova costruzione, di via Ippolito Rosellini.
Avevamo messo tutto il nostro
impegno di bambini e ragazzini, e quello di alcuni genitori, nel costruire quel
campetto.
Un’area adiacente alla
Facoltà di Veterinaria di Pisa, brulla ma messa a disposizione dal Comune,
probabilmente con l’intercessione di qualche adulto: ruspe che spianavano, uomini
che ripulivano, e poi gesso, porte, sudore, corse ed entusiasmo di bambini
innamorati di Bud Spencer e Terence Hill, e dei tanti idoli calcistici di
quell’anno.
Eravamo orgogliosissimi:
finalmente potevamo giocare a pallone, con una vera sfera di cuoio, senza dover
stare attenti alle automobili che passavano continuamente nella nostra strada,
al pallone che finiva sotto quelle parcheggiate, e in quei casi, dovevamo
sdraiarci in mezzo a tubi di scappamento e carrozzerie d’auto per recuperarlo.
Pomeriggi interi a giocare a
pallone e a ripassare col gesso, il segno delle porte che avevamo disegnate sui
muri.
Spesso, in questi frangenti,
quando si trattava di stabilire se una palla fosse entrata in rete o meno,
venivo interpellato io, che fossi di una o dell’altra squadra: “Franceschino, è gol?” e io rispondevo
sì o no, anche se la cosa andava contro gli interessi della mia squadra… Ero
Franceschino, perché esisteva un altro ragazzino, che aveva il mio nome,
pestifero e più grande di me.
Io arrivavo dopo.
Dopo.
Come quando si facevano le
squadre a pari o dispari, e i due capitani (i bambini più forti, solitamente)
sceglievano a turno i propri compagni di squadra.
Anche lì arrivavo dopo.
Nel senso che mi sceglievano
per ultimo.
2.
Ecco: mentre il sole, stava
tramontando su quel campetto, io ero solo.
Cercavo di palleggiare con la
mia nuova sfera di cuoio giallo ocra, regalatomi dai miei genitori o da qualche
parente, per il Natale di quell’anno.
Lì potevo sfogarmi e fare le
mie telecronache fantasiose.
Non era una strada, era un
campo “vero”…
Potevo essere Pietro Anastasi,
Francesco Morini (anche lui pisano e bianconero), Luciano Spinosi o,
all’occorrenza, il portiere Dino Zoff.
Ero riuscito addirittura a
vincere, con i Kinder Brioss, una giornata da trascorrere col mio campione
preferito e avevo scelto proprio Dino Zoff!
Un giorno mi arrivò una
lettera a casa, dalla Juventus o dalla Kinder, non ricordo, in cui c’era
scritto che Zoff non poteva venire, e che avrebbero ripiegato su Sandro Salvadore,
libero, ex capitano della Juventus, sul finire di carriera, che avrebbe
lasciato il posto, la stagione successiva, ad un promettente libero moderno:
Gaetano Scirea.
Non arrivarono mai né Zoff,
né Salvadore, né nessun altro.
Mentre ero in procinto di
tornare a casa, con mia mamma che mi aspettava per cena, si fermò un uomo
davanti a me: capelli lunghi, un bellissimo sorriso, sembrava ai miei occhi un
eroe classico, una specie di Capitan Harlock, avrei detto, anche se quel
personaggio sarebbe comparso sulle televisioni di noi bambini, qualche anno
dopo.
Quell’uomo, che non
conoscevo, era il fratello di un mio vicino di casa, che abitava, come me, in
via Agnelli. Anche la nostra squadra si chiamava “Via Agnelli” e, nella partita di inaugurazione del campetto,
perdemmo 16-0!
Ecco: quell’uomo mi regalò un
paio di calzettoni veri, da giocatore importante: di quelli che in fondo sono
bucati, e che erano troppo grandi per un bambino.
Tornai a casa felice.
Feci mettere in lavatrice da
mia madre quei calzettoni strani, non ne avevo mai visti prima, e li conservai.
Erano bianchi e azzurri, come le magliette della nostra squadra di strada.
Capii qualche anno dopo che
venivano dal Como, che quel signore giocava a pallone per davvero, che quello era
il suo lavoro. Aveva frequentato l’oratorio della Parrocchia di Sant'Jacopo in
Orticaria, in via San Michele degli Scalzi, condotto dai padri Oblati Lanteriani,
dove anche io avevo giocato qualche volta.
Personalmente, lo avevo visto
correre come un ossesso in un Pisa-Torres, 1-1, al quale mi aveva portato mio zio
Piero, con i miei cugini Carlo e Nicola, ma non sapevo, in quel pomeriggio che
fosse la stessa persona che avevo davanti adesso.
C’è da dire che zio Piero,
una gran bella persona e, a quel tempo, anche nostro medico di famiglia,
consorte di Luciana, mia zia, era stato anche il primo ad avermi regalato un
bellissimo libro “I Racconti del calcio” nel quale, penne quali - se ricordo
bene - Giovanni Arpino e Gianni Brera, avevano tratteggiato l’epica del calcio
in una maniera, per un decenne qual ero, impregnante, formativa, oserei dire.
Era un libro bellissimo, oggi
forse introvabile.
3.
Ma torniamo a quell’uomo.
Quel giocatore professionista
dal Pisa, la squadra del mio cuore, si era trasferito, in quella stagione
calcistica, al Como, e nell’anno successivo, avrebbe giocato proprio accanto a
Zoff nella Juventus e, per molti anni, a tanti altri campioni.
Quello è l’uomo dell’urlo
dell’82, famoso quasi come quello di Edvard Munch.
È Marco Tardelli.